Una delle indicazioni nutrizionali che ha maggiormente avuto fortuna nel corso degli ultimi 15 anni è legata all’invito a mangiare più pesce. Il razionale salutistico è dettato dalla sostituzione di alimenti potenzialmente meno salubri, quali carni rosse, e l’incremento di assunzione di alimenti che curano il cuore, tra cui gli Omega-3, acidi grassi polinsaturi responsabili di una buona salute cardiovascolare.
Il messaggio è stato recepito in particolar modo dalla popolazione italiana che, secondo i dati elaborati dall’European Market Observatory for fisheries and aquaculture products e pubblicati nel gennaio 2017, registravano un consumo medio annuo pro capite di pesce in Italia di 28,9 kg, pari a circa 250 grammi di pesce 2,5 volte alla settimana, contro i 25,58 kg di consumo medio annuo pro capite di pesce come media dei 28 Paesi della UE.
È certamente un dato importante che sottolinea come le campagne di informazione sanitaria al pubblico abbiano un impatto significativo. Se però letto da un altro punto di vista, il risultato di prevenzione sanitaria non è così certo.
Si fa presto infatti a dire pesce! Ma quale pesce? In base alle Tabelle nutrizionali della FAO, esiste infatti una notevole differenza, in termini di assunzione di nutrienti utili per la salute umana, tra le diverse tipologie di pesce. Considerando ad esempio l’apporto proteico, mangiare 100 grammi di tonno sott’olio è molto diverso dal mangiare 100 grammi di acciughe; mentre infatti il primo apporta ben il 25% di proteine nobili, queste ultime forniscono all’organismo solo il 16% di proteine.
Ancora più marcata è la differenza di assunzione di Omega-3 tra le differenti specie di pesce. Mentre 100 grammi di sardine fresche (però mangiate marinate crude…) apportano 4,08 grammi di Omega-3, mangiare 100 grammi di merluzzo fresco apportano solo 0,11 grammi di Omega-3.
Un ulteriore elemento di valutazione delle politiche di prevenzione sanitaria incentrate sull’incremento del consumo di pesce è da individuare nella sostenibilità di tale scelta. È pensabile che i mari siano in grado di sostenere un aumento infinito dei consumi delle riserve ittiche?
Secondo un dato della FAO, pubblicato nel report del 2014 The State of World Fisheries and Aquaculture, nel 2011 solo il 17% dei mari mondiali era in una condizione di sfruttamento sostenibile, ovvero capace di sostenere un livello di pesca incrementale rispetto allo stato corrente; il 57% era in condizione di massima possibilità di sfruttamento e ben il 26% era in condizione di sfruttamento tale da mettere a rischio la vita biologica di quei mari.
A tale considerazione deve affiancarsi una domanda sulla modalità di utilizzo del pescato. Sempre nel medesimo report della FAO, era evidenziato come ben il 14% del pescato, pari a 21,7 milioni di tonnellate annue è destinato ad utilizzi non strettamente alimentari; e di questo stock, ben il 75% (16,3 milioni di tonnellate) era pesce destinato ad essere trasformato in fish oil per la produzione di integratori alimentari.
Può allora essere legittima la seguente affermazione: “Non di solo pesce vive l’uomo…”.
Esistono in natura valide alternative, dal punto di vista salutistico, al consumo indiscriminato ed ecologicamente non sostenibile delle nostre riserve marine?La riposta è da ricercare nella differenza tra Omega-3. Così come non tutti i pesci sono uguali, allo stesso modo non tutti gli Omega sono uguali e non tutti derivano da fonti animali.
L’acido alfa linolenico, precursore di tutti gli Omega-3, è infatti di origine esclusivamente vegetale. Mentre l’organismo non è in grado di sintetizzarlo autonomamente (deve infatti essere introdotto nell’organismo attraverso l’alimentazione), da esso l’organismo è in grado di produrre i suoi metaboliti, ovvero EPA e DHA, gli Omega 3 presenti nei pesci.
L’assunzione di alimenti contenenti acido alfa linolenico è quindi una valida alternativa all’assunzione di pesce o di suoi derivati quali i fish oil ed i benefici ad esso connessi sono di particolare valore per la salute umana, così come riconosciuto dall’EFSA, l’Autorità per la Sicurezza Alimentare Europea.
La carenza di l’acido alfa linolenico, infatti, causa gravi anomalie neurologiche e crescita ridotta nei bambini (EFSA Journal 2011, 9(4):2130; EFSA Journal 2011, 9(4):2050).
L’impiego di acido alfa linolenico è, inoltre, un valido coadiuvante nel trattamento delle alterazioni metaboliche e obesità, anche in vista dell’effetto di abbassamento del colesterolo LDL (EFSA Journal 2009, 7(9):1252).
Da ultimo, l’acido alfa linolenico contribuisce a mantenere un livello normale di colesterolo, nell’ambito di una dieta bilanciata, nella popolazione generale e riduce il livello di colesterolo LDL nel sangue (EFSA Journal 2009, 7(9):1252; EFSA 2009, 7(9): 1263; EFSA 2010, 8(10):1796; EFSA 2009, 7(9):1276; 2011, 9(6):2235).
Se quindi è importante un’alimentazione variata che includa anche il consumo di pesce, una scelta etica e ecologicamente sostenibile è certamente legata al consumo di alimenti vegetali che apportino una significativa quantità di Omega-3 vegetale, ovvero di acido alfa linolenico.